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Introductions

Introduzione

Abstract

Dando un breve sommario della teoria vichiana della metafora come, al tempo stesso, figura retorica e forma della conoscenza, il saggio serve da introduzione ai quattro interventi su Giambattista Vico inclusi in questo volume monografico di Italian Culture.

I

Il presente volume si propone di riconsiderare l’articolarsi delle diverse forme del sapere e della conoscenza nell’opera di Giambattista Vico. Contro una tendenza ancora dominante, e diffusa soprattutto nell’esegetica anglofona, che considera l’umanesimo vichiano come costituzionalmente avverso alla scienza razionalistico-cartesiana (Fisch, Citation1944; Verene, Citation1981), il volume evita “una generica contrapposizione delle scienze morali alle scienze della natura” (Rossi, Citation1969: 29). I saggi qui compresi partono quindi da un Vico che resisterà anche — contro la tradizione cartesiana — a una scienza meramente classificatoria e quantitativa; ma non per rifiutarla, sebbene per ricomprenderla in un universale del sapere umano in cui trova spazio il metodo retorico-storico-genetico: una scienza della storia capace di dare con-scienza sia delle scienze stesse (algebra e geometria incluse) nel loro progresso diacronico, sia dei fatti e delle cose stesse. I saggi qui presentati ripensano insomma una studiorum ratione che subordini a sé sia l’ordo geometricus che l’ordo topicus, procedimenti metodici non tanto alternativi bensì da integrare perché prodotti da una stessa struttura della mente umana, e per questo espressioni comuni di un’autentica “scienza nuova” capace di coinvolge in toto le facoltà conoscitive dell’essere umano.

Il saggio di Benedetto Fontana, “Philosophy and Rhetoric in Vico’s Thought,” si occupa allora di una diversa contrapposizione, quella tra retorica e filosofia — la prima rivolta a persuadere, la seconda a educare. Fontana ricostruisce il dibattito classico tra i proponenti di una retorica intesa come tecnica della persuasione (Gorgia, Isocrate, e i sofisti in generale), e i fautori, invece, di una retorica intesa come logica, e quindi come processo conoscitivo (Platone, Aristotele). L’originalità di Vico, nel saggio di Fontana, consiste però non — come si è spesso detto — nel preferire la retorica/gnoseologia alla retorica/persuasione, quanto nel tentare una sintesi tra queste due concezioni della retorica, in cui il conoscere e l’educare al vero coincidono con il processo politico della persuasione; con le istituzioni, cioè, del vivere civile.

Nel seguente saggio, “Ingegno e Memoria in Giambattista Vico,” Manuela Sanna legge Vico come lettore di Cartesio. L’argomento si sofferma quindi su di un nodo particolarmente complesso del pensiero vichiano: il suo intendimento di “memoria,” al tempo stesso facoltà passiva di registrazione, e facoltà creativa di generazione. La questione sollevata dal saggio verte in particolare sulla relazione tra memoria e costruzione del soggetto — quest’ultimo inteso in senso individuale, ma anche esteso all’identità di popoli e nazioni che nella memoria della loro storia — facta o “inventata” (Hobsbawm and Ranger, Citation1983) — immaginano una identità. Se i singoli, come del resto le collettività, creano attraverso la memoria un soggetto, e, al contempo, una auto-coscienza del soggetto, la memoria diventa allora una forma fondamentale di conoscenza nel progetto vichiano, il cui primo momento, alternativo alla “distruzione dell’esperienza” del cogito ergo sum cartesiano (Agamben, Citation2001), prende avvio appunto dall’oracolo che Giambattista Vico non tralascia mai di riportare alla memoria: “conosci te stesso” (Vico, Citation1982: 23).

“Literature in the University: Giambattista Vico’s Ideal Type” di Sabrina Ferri affronta in particolare il ruolo della “poesia” vichiana (e della “letteratura” in una dizione più moderna) nel ciclo di produzione e trasmissione della conoscenza il cui precipuo istituto rimane ad oggi l’università. Concentrandosi sul De mente heroica, il saggio vuole demistificare, ricostruendo l’idea di università e di studiorum ratione nell’intendimento di Vico, la consueta e rigida opposizione tra discipline scientifiche da un lato — nomotetico, falsificabili, e universalizzabili nei risultati — e discipline umanistiche dall’altro — ideografiche, specialistiche e particolari. Per fare questo, Ferri legge gli “universali fantastici” e i personaggi poetici discussi da Vico alla controluce della weberiana teoria dei “tipi ideali” — per fare apparire così in tutto risalto quell’apparente paradosso che Vico riscrive sul palinsesto aristotelico: che il verosimile della finzione, cioè, sia più universale e più vero del reale empirico.

Riannodando i precedenti temi di politica/persuasione, di soggettualità, e di empirismo, Timothy Brennan porta a conclusione questo volume con “Vico and Modern Scientism.” Quella di Brennan è una genealogia del contemporaneo scientismo come empirismo. Il saggio ritrova in una pluralità di orientamenti filosofici, critici, e metodologici che caratterizzano oggi le cosiddette humanities lo stesso vizio di fondo che Vico aveva additato nel “metodo geometrico” e nella “critica” (post-)cartesiana: il confondere una epistemologia (cioè una serie di modelli e linguaggi per l’apprendimento del reale) per una ontologia (e cioè, per il reale stesso). Questa confusione, suggerisce Brennan, è perpetrata nel nome di una nuova “urge for an objectivity” il cui scopo ultimo è privare la storia umana di un qualunque soggetto e agente. Il motto vichiano diventa allora monito urgente: “questo Mondo Civile egli certamente è stato fatto dagli uomini” (Vico, Citation2001: 541).

II

La preoccupazione di individuare nei meccanismi della mente umana, e soprattutto in quelli retorico-poetici, una forma del sapere e della conoscenza — conoscenza del Mondo Civile, ma pure, in certa misura, della realtà di quello Naturale stesso — emerge assai presto nell’opera di Giambattista Vico. Già nella prima Orazione Inaugurale del 1699, e nel contesto di una protratta esortazione a che lo studentato impari a coltivare la forza della fantasia — umana “facoltà […] di rappresentare con immagini la realtà” (Vico, Citation1982: 27) — Giambattista Vico, professore fresco di nomina alla cattedra di Retorica presso la Regia Università Federico Secondo di Napoli, si sofferma a trattare una particolare figura di detta fantasia: è la metafora.

Quello che rende tale figura particolarmente degna di attenzione nel percorso argomentativo qui proposto da Vico non è la maraviglia di mariniana memoria che pure essa è capace di suscitare, quanto, programmaticamente, la sua unica e particolare “velocità di ragionare” (ratiocinandi illa quam velox!):

Mentre pronuncio la metafora che tanto piace ad Aristotele, e chiamo scudo di Bacco la coppa del vino, quanti e che celeri movimenti, più veloci della mia parola, si destano in ciascuno di voi! Difatti ciascuno di voi prima vede da una parte Marte, dall'altra Bacco; poi scorge da una parte lo scudo, dall’altra la coppa. Immediatamente collega Marte con lo scudo, Bacco con la coppa, e vede Marte armato di scudo e Bacco che porta la coppa; poi a questo punto associa queste quattro immagini secondo la sede che è loro propria: Marte e Bacco per la loro sede celeste, la coppa e lo scudo per la loro sede terrena, e subito, considerando rapidamente col pensiero tutte le particolari situazioni terrene, grazie alla relazione istituita fra Bacco e Marte e fra la coppa e lo scudo coglie il perché delle relazioni e considera l’utilità specifica sia dello scudo che della coppa, che cioè quella dello scudo è di tener lontani i nemici, quella della coppa è invece di tener lontana la sete, e subito giunge a questo paragone [similitudinem], che come Marte si serve dello scudo cosí Bacco si serve della coppa, il primo per tener lontani i nemici, il secondo invece la sete; ed inoltre confronta la forma dello scudo con quella della coppa, e si accorge che essi appartengono entrambi anche al genere degli oggetti rotondi. (Vico, Citation1982: 27–29)

Sulla “metafora che tanto piace ad Aristotele” il professor Vico sarebbe poi ritornato durante il corso di lezioni dettate ai suoi alunni (quelli erano i tempi!) durante lo svolgimento dell’anno accademico. Nel contesto adesso più direttamente pedagogico, quello che interessa Vico della metafora non è la velocità, quanto, appunto, il “piacere” — secondo un altro dettato: quello ciceroniano del docere, delectare et movere che tanta fortuna aveva avuto nel Rinascimento (Vickers, Citation1988: 345) — che questa desta in chi l’ascolta. Certo pur sempre facoltà raziocinativa (nella metafora è una ratio, insiste Vico), la metafora è una ragione che non elemosina il diletto. Distinguendo allora per vari gradi di piacere similitudine (similitudo), evocazione (icon) e metafora (metaphora), così legge il dettato vichiano:

la similitudine piace [delectat] meno dell’evocazione e l’evocazione meno della metafora. È una similitudine dire: “Bacco sconfigge la sete col bicchiere come Marte i nemici con lo scudo”; è un’evocazione, invece, dire: “Bacco sconfigge la sete col bicchiere, come fosse uno scudo”; ed è una metafora [Metafora vero est]: “Sconfiggiamo la sete con lo scudo di Bacco”. La ragione del nesso [ratio ligaminis] è più evidente nella similitudine che nell’evocazione, più evidente in questa che nella metafora. E pertanto l’ingegno dell’ascoltatore [ingenio auditoris] si lascia meno da spiegare nella similitudine che nell’evocazione e meno nell’evocazione che nella metafora. (Vico, Citation1989: 295)

Riprendendo così l’annosa querelle italo-francese riguardo la preferenza da assegnare al “genio” della lingua francese — lingua chiara, diretta, logica e rigorosa — o invece al “genio” barocco, metaforicheggiante e indulgente verso i sofismi stilistici, dell’italiano (Bouhours Citation1673), Vico risponde a un “anonimo autore francese” — il cartesiano Antonine Arnauld della Logique ou l’art de penser (1662) fondativa della grammatica port-royalista — cambiando radicalmente le regole del gioco (Sorrentino, Citation1927: 86–92; Gambarota, Citation2006: 285–307). Non si tratta più, per Vico, di scegliere tra la logica — arte del ben pensare capace di rinvenire il vero nelle cose — e la metafora — “arte del ben parlare” (Pennisi, Citation1987: 55) che per il francese rimarrebbe ozioso artificio “del falso che sembra vero e del vero che sembra falso” (Vico, Citation1989: 295) — sebbene di abolire una qualunque differenza euristica fra due modi, diversi per velocità e piacere, eppure simili nella stessa finalità di pervenire, entrambi, a una ragione, a una ratio del vero.

Metafora e logica, per dire altrimenti, non sono procedimenti contraddittori, quanto analoghi nell’obiettivo ultimo di svelare la verità dietro l’apparire del diverso. Così come nella logica, anche nella metafora:

osserva Aristotele nella Poetica […] che “la nostra mente sembra dire a se stessa: ‘così era in verità!’” [quam verum est hoc!] […] la mente sembra dire a se stessa: “quanto bene si corrispondono le cose che io credevo così diverse!” [quae diversa putabam]. (Vico, Citation1989: 295)

La metafora allora, lungi dall’essere “falso che sembra vero,” è proprio quel vero stesso: quam verum est hoc! Ricalcando una linea interpretativa — da Aristotele e Cicerone alla Agudeza y arte de ingenio di Baltasar Gracián (Grassi, Citation1990: 86) — tesa a dare alla metafora valore gnoseologico, Vico giunge così, già in quel lontano 1699, a una prima affermazione così riassumibile: “l’arte retorica, i tropi e le figure non sono tanto forme di abbellimento del linguaggio poetico, quanto forme e linguaggio della mente, attività originarie del pensiero, con cui l’uomo si affaccia sul mondo interpretandolo” (Luvarà, Citation2001: 140).

La metafora — figura, come Gracián voleva, dell’ingegnoFootnote1 — ha quindi come destinazione il vero. Ma giunge a questo non attraverso la mimesi rappresentativa — attraverso la identità, cioè, di “idées […] claires et distinctes” (Arnauld and Nicole, Citation1992: 37) e cose — sebbene attraverso un processo articolato nella differenza, in cui, per dirla con il pure vichiano Spaventa, “La differenza è la realtà” del vero (Spaventa, Citation1900: 63). Ed è proprio questa differenza a rendere il processo conoscitivo, appunto, un processo, soggetto come tutti i processi a un tempo più o meno veloce: l’artefice di una metafora, infatti, prima percepisce le cose; quindi comprende tali “cose che io credevo così diverse” in una relazione analogica (un’astrazione dall’empiria che coglie similitudini fra le cose); e infine, considerate le possibili relazioni, inviene l’intima verità che l’associazione può produrre.

Le scelte verbali ed avverbiali articolate da Vico nel passaggio già citato dall’orazione sono esplicite a questo riguardo: “Ciascuno di voi prima vede (Videt [] primo) da una parte Marte, dall’altra Bacco;” “quindi collega (deinde [] componit) Marte con lo scudo, Bacco con la coppa;” e infine “coglie il perché delle relazioni (tum [] caussarum desumit finem)” giungendo così “a questo paragone, che come Marte si serve dello scudo così Bacco si serve della coppa, il primo per tener lontani i nemici, il secondo invece la sete.”

La coppa, in conclusione, difende dalla sete come lo scudo difende dal nemico: quam verum est hoc! È questo il procedimento alla base della gnoseologia retorica: percezione delle cose; comprensione delle cose in relazioni di similitudine; e finale giudizio sulle cose. Sarà questo, ancora nella Scienza nuova, il procedimento alla base di qualunque conoscenza — da quella, appunto, della metafora poetica, a quella logico-filosofica del sillogismo:

l’ordine dell’umane idee è d’osservare le cose simili, prima per ispiegarsi, dappoi per pruovare; e ciò prima con l’esemplo, che si contenta d’una sola, finalmente con l’Induzione, che ne ha bisogno di più: onde Socrate, padre di tutte le Sette de’ Filosofi introdusse la Dialettica con l’Induzione; che poi compiè Aristotile col Sillogismo. (Vico, Citation2001: 597–598)

Ed è questo ancora, a ben vedere, il procedimento alla base della gnoseologia insita nei linguaggi storici delle genti e delle nazioni, primo e comune strumento delle umane conoscenze: l’empirico cipresso non sarà certo la quercia empirica, eppure il primo produce foglie e ombra come il secondo. Entrambi sono “albero:” quam verum est hoc!

Nell’orizzonte logico aperto dalla metafora come figura della ragione, la Verzeitlichung (Koselleck, Citation2004: 11) del processo conoscitivo necessita però di collegare l’esistenza empirica di oggetti diversi da un lato (la coppa, lo scudo), e l’astrazione generica dall’altro (il “tener lontani”), attraverso un termine medio, una relazione, un “come” appunto, che stabilisce una analogia tra coppa e scudo e che rende questi, se non uguali, simili e proporzionali fra di loro. La coppa serve a Bacco come lo scudo serve a Marte. Da qui alla cartesiana ragione geometrica il passo è breve: A sta a B come C sta a D (Schaeffer, Citation1990: 62). “Comune tra i membri della proporzione è un’operazione” (Botturi, Citation1988: 135), un procedimento algebrico di misure e permutazioni analogiche, un A:B=C:D dove, una volta stabilito il “come,” scudo e coppa diventano permutabili, e può quindi dirsi, con matematica certezza, che lo scudo è per Bacco come la coppa è per Marte, AxD=CxB.

Pure rendendo, come da consuetudine della trattatistica rinascimentale, l’ómoion aristotelico — “che dovrebbe piuttosto esser tradotto ‘analogia’ (ovvero ‘similare’ nel senso della geometria preeuclidea e poi euclidea)” (Gensini, Citation2004: 67) — con similitudinem, Vico certamente recupera dalla lezione aristotelica una concezione della metafora “analogica” come procedimento geometrico-razionale, logico-sillogistico. Come nel sillogismo così nella metafora, due premesse relazionabili per analogia muovono il pensiero logico a una conclusione. Così legge infatti il passo aristotelico di riferimento:

Metafora è il ricorso a un nome d’altro tipo, trasferibile o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o in un rapporto analogico (kata to analogon) […] E dico modo analogico, quando il secondo termine sta al primo nello stesso rapporto del quarto al terzo […] Porto come esempio, che un boccale rispetto Dioniso sta nello stesso rapporto di uno scudo rispetto a Marte; per cui si chiamerà scudo di Dioniso il boccale, e boccale di Marte lo scudo. (Aristotele, Citation1982: 79)

La metafora, quindi, come sillogismo. Ma è, questo della metafora, un sillogismo particolare: mentre nella similitudine “Bacco sconfigge la sete col bicchiere come Marte i nemici con lo scudo;” e mentre nell’evocazione “Bacco sconfigge la sete col bicchiere, come fosse uno scudo” — nella metafora propriamente detta, invece, “sconfiggiamo la sete con lo scudo di Bacco.” Il nesso, il “come,” il termine medio viene eliso; e l’ingegno dell’ascoltatore salta — veloce! — direttamente alla conclusione.

Il tipo di sillogismo proprio della metafora è infatti, per meglio dire, un “entimema metaforico” (Croce, Citation1899: 25), di cui così aveva del resto scritto Antoine Arnauld nella Logique ou l’art de penser:

È bene sapere che le prime due proposizioni sono anche chiamate premesse (prœmissæ) perché vengono, almeno nella mente, prima della conclusione, che dovrebbe essere una conseguenza necessaria delle premesse stesse, se il sillogismo è buono; ciò vale a dire che la validità presunta delle premesse è necessaria perché la conclusione possa essere vera. È vero che non sempre esprimiamo entrambe le premesse, perché spesso una è sufficiente per frichiamare anche la seconda alla mente; e così, quando si esprime una delle due premesse, questo tipo di ragionamento è chiamato entimema, che è un vero sillogismo solo nella mente, perché questa supplisce la premessa mancante, che non è espressa; l’entimema è imperfetto nell’espressione, poiché arriva alla conclusione in virtù di una premessa che rimane solo implicita.Footnote2

E qui sta il punto: per quanto giudicato “imperfetto” da Arnauld, l’entimema, che per Vico è come dire la metafora, rimane pure sempre, anche nell’orizzonte intellettuale della Logique, un procedimento capace di arrivare a conclusioni vere e razionali.

Che la metafora sia un processo sillogistico, non dissimile in questo dalla logica di Port-Royal, né dal metodo geometrico di Cartesio, è un punto ricco in sé di molteplici sviluppi futuri per l’opera di Giambattista Vico. Certo, a differenza di Arnauld, Vico preferirà sempre il veloce e ingegnoso entimema al più farraginoso sillogismo. E certo, a differenza del metodo geometrico di Cartesio, e in quanto processo, la metafora non si presenterà all’umanità gentilesca di Vico come immediata rappresentazione del verum (o come immediata intuizione di un ergo sum), quanto come temporalizzazione del processo gnoseologico che prima di dare il factum necessiterà un da farsi (Montanari, Citation2016: 708). E certo — si potrebbe ancora aggiungere — il processo logico-conoscitivo di Vico, già abbozzato nell’orazione del 1699, non partirà mai dalla separazione cartesiana tra res extensa e res cogitans, bensì dal corpo materico e senziente (dal videt, e dal piacere pure) il quale arriva, solo alla fine di detto processo, al concetto, all’idea, e alla ragione.

Ma il punto essenziale rimane pur sempre il fatto che la logica — prima retorica, poi poeticaFootnote3 — della metafora non è per Vico euristicamente altra rispetto alla logica cartesiana o port-royalista che dire si voglia, ma altra solo nel procedimento, per così dire, disciplinare. Differenti per quanto concerne gli universi di segni adoperati, scienza e retorica si corrispondono sia nella loro genesi (entrambe sono svolgimenti della logica), sia nei loro prodotti (il vero). Entrambe queste logiche contemplano e relazionano cause e fini; ed entrambe, per di più, sembrano capaci di astrarre dal reale figure e forme: perché la “relazione,” il “come” tra coppa e scudo, non era solo, per ricordare, una proporzione di cause e fini, bensì, come si era infatti citato dall’Orazione, relazione tra cose che appartengono “al genere degli oggetti rotondi” (in genere rotundarumque rerum) (Vico, Citation1982: 27–29).

Anche da questa intuizione geometrica comincia infatti il processo metaforico, che non è quindi estraneo, né per fini, né per figure, al metodo geometrico cartesiano, tanto che Vico può lietamente riportare per l’auditorio del 1699 “l’aneddoto, narrato da Platone, di quel fanciullo che, interrogato da Socrate, rispondendo volta per volta alle facilissime e chiare domandine del filosofo, espose la dimostrazione geometrica dell'area del quadrato, benché fosse ignaro di ogni nozione di geometria” (Vico, Citation1982: 37). Arte del ben pensare e arte del ben parlare sono realtà congruenti. Geometria e retorica, matematica e poesia, diventano così linguaggi sì diversi, eppure entrambi contenuti entro una stessa “struttura” (Badaloni, Citation2008: 100) che li ha prodotti. E sarà proprio nella possibilità di sistematizzare e strutturare geometria e retorica, matematica e poesia, in una nuova meta-scienza che consisterà la pascaliana scommessa della Nuova scienza vichiana. Era questa la stessa scommessa, incidentalmente, dell’idea stessa di università, etimologicamente il “complesso di tutte le cose di un tutto, univèrsus” (Pianigiani, Citation1907):

Appunto perciò abbiamo istituito e ordinato le università di ogni genere di discipline, ove ciascuno insegna la materia di sua competenza. Ma a questo vantaggio è correlativo l’inconveniente che arti e scienze, che la sola filosofia comprendeva in un unico spirito, oggi sono diverse e separate […] E così l’istruzione è male organizzata e sconclusionata tanto che, pur dottissimi in singole dottrine, nella totalità, che è poi il fiore del sapere, si finisce per valere ben poco. Perciò, sembrandomi questo uno svantaggio, vorrei che i maestri delle università formassero un unico sistema di tutte le discipline […]. (Vico, Citation2001: 207–209)

III

Se abbiamo così da un lato voluto evitare la doxa di un Vico anti-scientifico, non abbiamo d’altro canto resistito alla tentazione di un’altra doxa — quella del Vico “precursore.” Ma precursore non nel senso che Vico sia per i collaboratori a questo volume un hegeliano ante litteram (Spaventa, Citation1908; Croce, Citation1922; Gentile, Citation1914; Berlin, Citation1976), o il “miracolo” di uno storicismo non ancora nato (Meinecke, Citation1972: 37–43; Auerbach, Citation1949: 110–118; White, Citation1978: 143–147), o ancora preludio alla “teoria critica” del materialismo storico (Horkheimer, Citation1987). Più che “precursore,” infatti, il Vico di questo volume è forse — a dirla con Ernesto De Martino — il rimorso di “un passato che non fu scelto” (De Martino, Citation2002b: 36) dall’epistemologia e dalla pedagogia degli ultimi tre secoli. Sarà anche vero, come lamentava James Crosswhite, che “Vico is interesting for us today because his words failed to have their desired effect, at least in his time” (Crosswhite, Citation2004: 373). Ma la dissoluzione della crisi della conoscenza oggettiva nel particolarismo e nel relativismo più assoluti (l’ossimoro è ovviamente intenzionale); la mortificazione della coscienza e della conoscenza storico-umanistica nella nuova università (la cui “antica sapienza” etimologica sarebbe da recuperare); il vicolo cieco pedagogico in cui si pigiano giovani ai quali viene assicurato che non esistono più verità (né, per dirla con Vico, “certezze”) da insegnare, e tantomeno esistono criteri metodologici su cui basare una pedagogia, ma solo un “ingresso nel mondo del lavoro” da assicurare — tutto questo, e tanto altro ancora, ci riporta a Vico e a un possibile passato in cui un’educazione integrale dell’essere umano, tra antichi e moderni, tra humanities e STEM, avrebbe ancora potuto essere scelto.

Quanto segue, insomma, e per citare ancora De Martino, “nasce sul terreno della storia contemporanea, cioè come chiarificazione conoscitiva di nodi operativi in cui la propria epoca è impigliata” (De Martino, Citation2002a: 33). Lasciamo al lettore il compito di districare tali nodi.

Notes on contributor

Roberto Dainotto is Professor of Italian and of Literature at Duke University, where he teaches courses on modern and contemporary Italian culture. His publications include the edited volume Racconti Americani del ’900 (Einaudi, 1999); Place in Literature: Regions, Cultures, Communities (Cornell UP, 2000); Europe (in Theory) (Duke UP, 2007), winner of the 2010 Shannon Prize in Contemporary European Studies; and Mafia: A Cultural History (Reaktion Books, 2015). He is currently working on a monograph devoted to Antonio Labriola.

Correspondence to Roberto Dainotto. Email: [email protected]

Notes

1 “Ingenium è la facoltà di unificare cose separate, di congiungere cose diverse. I Latini lo chiamarono acutum e obtusum, utilizzando due termini propri del linguaggio geometrico. L’acuto penetra con più celerità e unisce più internamente cose diverse, come due linee che s’incontrano in un punto posto al di sotto di un angolo retto. L’ottuso, invece, penetra nelle cose con più lentezza e le lascia diverse, come due linee profondamente distanti dalla base unite in un punto posto al di fuori di un angolo retto. Ugualmente è ottuso l’ingegno che congiunge cose diverse più lentamente, acuto quello che fa ciò più velocemente” (Vico, Citation2005:119).

2 Il est bon de savoir que les deux premières propositions s’appellent aussi prémisses (prœmissæ), parce qu’elles sont mises au moins dans l’esprit avant la conclusion, qui en doit être une suite nécessaire si le syllogisme est bon; c’est-à-dire que, supposé la vérité des prémisses, il faut nécessairement que la conclusion soit vraie. Il est vrai que l’on n’exprime pas toujours les deux prémisses, parce que souvent une seule suffit pour en faire concevoir deux à l’esprit; et, quand on n’exprime ainsi que deux propositions, cette sorte de raisonnement s’appelle enthymème, qui est un véritable syllogisme dans l’esprit, parce qu’il supplée la proposition qui n’est pas exprimée; mais qui est imparfait dans l’expression, et ne conclut qu’en vertu de cette proposition sous-entendue (Arnauld and Nicole, Citation1992 : 168–169).

3 “gli uomini ignoranti delle cose, ove ne vogliono fare idea, sono naturalmente portati a concepirle per somiglianze di cose conosciute” (Vico, Opere 1105).

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