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Research Article

Oltre il ‘povero ma bello’: Renato Salvatori e il lato oscuro del Boom italiano

Published online: 30 Jul 2024
 

ABSTRACT

Starting from 1960, Renato Salvatori radically transformed his picture personality, hitherto anchored to characters conveying the optimistic drives of a country headed towards a prosperous future. After his encounter with Luchino Visconti, who cast him as the lead in Rocco e i suoi fratelli (1960), Salvatori reshaped his cinematic persona and brought to life some of the fiercest incarnations of the Boom era. By focusing on Visconti’s Rocco, Ugo Gregoretti’s Omicron (1963) and Giuliano Montaldo’s Una bella grinta (1965), this essay highlights how Salvatori came to embody – through his complex and morally-degraded characters – the most controversial features of the sociocultural context of 1960s Italy: from the tragic uprooting of Southern emigrants in Northern Italy to the alienating effects of factory life, from the recklessness of the new entrepreneurial class that would build the foundations of modern-day Italy to the irreversible crisis of traditional models of masculinity.

SOMMARIO

A partire dal 1960, Renato Salvatori trasforma radicalmente la sua picture personality, precedentemente legata a personaggi in grado di veicolare le istanze ottimistiche di un paese proiettato verso un futuro di prosperità. Dopo l’incontro con Luchino Visconti, che lo sceglie come protagonista per Rocco e i suoi fratelli (1960), Salvatori rimodella la sua persona cinematografica e dà vita ad alcune delle più feroci incarnazioni dell'epoca del Boom. Concentrandosi sul Rocco viscontiano, Omicron di Ugo Gregoretti (1963) e Una bella grinta di Giuliano Montaldo (1965), questo saggio evidenzia come Salvatori giunga a incarnare – attraverso i suoi personaggi complessi e moralmente degradati – i tratti più controversi del contesto socioculturale italiano degli anni sessanta: dal tragico sradicamento dei migranti meridionali nell’Italia del Nord all’alienazione prodotta dalla vita di fabbrica, dall’inadeguatezza della nuova classe imprenditoriale che costruirà le fondamenta dell’Italia moderna alla crisi irreversibile dei modelli tradizionali di mascolinità.

Disclosure statement

No potential conflict of interest was reported by the author(s).

Notes

1 Jacqueline Reich e Catherine O’Rawe, Divi. La mascolinità nel cinema italiano (Roma: Donzelli, 2015), p. 7. A questo stesso proposito, nel corso della sua analisi approfondita degli studi sull’attorialità e sul divismo in Italia, Stephen Gundle nota come, ‘sebbene siano apparsi capitoli e articoli significativi in lingua italiana, solo poche star sono state studiate con attenzione sistematica. Il comico napoletano Totò è stato oggetto di numerosi studi monografici mentre a un altro attore comico, Alberto Sordi, sono stati dedicati diversi volumi. Le star femminili hanno ricevuto nel complesso più attenzione degli uomini, anche se l'approccio biografico è stato dominante. […] Nel complesso, gli storici della politica e della cultura non hanno concesso un grande spazio allo studio delle star. Nei libri e nelle collane sull'identità nazionale, addirittura, i divi e le dive non compaiono affatto’. Stephen Gundle, Fame Amid the Ruins: Italian Film Stardom in the Age of Neorealism (Londra: Berghahn, 2020), p. 8. Tutte le traduzioni in italiano da fonti inglesi presenti nell’articolo sono mie.

2 Gian Luigi Rondi, ‘Quel film d’autore che non poté girare’, Il Tempo, 28 marzo 1988.

3 A partire dal 1960, infatti, Salvatori viene diretto – fra gli altri – da Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli, 1960), Roberto Rossellini (Era notte a Roma, 1960), Nanni Loy (Un giorno da leoni, 1961), Franco Brusati (Il disordine, 1962), Franco Rossi (Smog, 1962), Florestano Vancini (La banda Casaroli, 1962), Mario Monicelli (I compagni, 1963), André Cayatte (Le Glaive et la Balance, 1963), Ugo Gregoretti (Omicron, 1963), Giuliano Montaldo (Una bella grinta, 1965), Marco Ferreri (L’harem, 1967 e L’ultima donna, 1976), Costa-Gavras (Z, 1969 ed État de Siege, 1972), Gillo Pontecorvo (Queimada, 1969), Valerio Zurlini (La prima notte di quiete, 1972), Vittorio De Sica (Una breve vacanza, 1973), Citto Maselli (Il sospetto, 1975), Francesco Rosi (Cadaveri eccellenti, 1976), Elio Petri (Todo Modo, 1976) e Alberto Lattuada (La cicala, 1980). L’attore toscano compare, inoltre, in brevi camei nei film di Bernardo Bertolucci La luna (1979) e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), titolo che segna la sua ultima apparizione sul grande schermo.

4 Con picture personality mi riferisco all’identità attoriale ‘costruita attraverso i film in cui [l’interprete] è apparso’, ‘prodotta e mantenuta principalmente attraverso il cinema’ e svincolata ‘da riferimenti esterni’ ad esso. Cfr. Richard deCordova, Picture Personalities: The Emergence of the Star System in America (Urbana & Chicago: University of Illinois Press, 1990), p. 51. L’espressione picture personality non è dunque legata alla cosiddetta persona pubblica dell’attore che ha a che fare invece con l’immagine divistica ‘costruita dai mezzi di informazione e dalle cronache giornalistiche interessate alla sua vita “extra-cinematografica’’’. Federico Zecca, ‘Oltre l’inetto. Elementi per una teoria della mascolinità nel cinema italiano’, in Oltre l’inetto. Rappresentazioni plurali della mascolinità nel cinema italiano, a cura di Angela Bianca Saponari e Federico Zecca (Milano: Meltemi, 2021), pp. 9–48 (p. 12). Anche volendo, d’altronde, un’analisi della ‘persona pubblica’ di Renato Salvatori sarebbe piuttosto difficile da condurre vista la scarsità di ‘copertura giornalistica’ relativa alla sua vita ‘extra-cinematografica’. Consultando le cronache italiane dell’epoca, infatti, è possibile notare come, rispetto ad altri divi del tempo, l’attore toscano sia stato raramente immortalato sulle pagine dei quotidiani nazionali. Solo nel periodo 1960–62, l’inizio della relazione fra Salvatori e Annie Girardot (e il conseguente matrimonio) fa leggermente aumentare la ‘densità’ di articoli dedicati all’attore, tutti incentrati, comunque, su questioni di cronaca rosa. Nella biografia a lui dedicata, in fin dei conti, Lodovico Gierut e Anselmo Santucci sottolineano proprio l’estrema riservatezza del divo toscano, spiegando come ‘molti aspetti del “privato” di Salvatori [siano] accessibili solo attraverso le interviste di amici e parenti. Nelle cose strettamente personali, al contrario di quello che accade oggi, l’attore si chiudeva a riccio’. Lodovico Gierut e Anselmo Santucci, ‘Renato Salvatori, un versiliese’, in Renato Salvatori. Il povero ma bello che volle farsi attore, a cura di Lodovico Gierut, Umberto Guidi, Anselmo Santucci (Roma: Bulzoni, 2007), pp. 12–86 (p. 41).

5 Enrico Biasin, ‘“Per un po’ di tempo camminai come Yul Brynner”. I giovani uomini italiani del dopoguerra al cinema’, in Cinema e identità italiana, a cura di Christian Uva, Stefania Parigi, Vito Zagarrio (Roma: Roma Tre Press, 2019), pp. 221–32 (p. 221).

6 Mary Wood, ‘“Pink Neorealism” and the Rehearsal of Gender Roles 1946–1955’, in The Trouble with Men. Masculinities in European and Hollywood Cinema, a cura di Ann Davies, Bruce Babington, Phil Powrie (Londra: Wallflower, 2004), pp. 134–43 (p. 139).

7 Catherine O’Rawe, ‘Raf Vallone. Quando il divo non è inetto’, in Saponari e Zecca, pp. 241–54 (pp. 241, 247, 253, 252).

8 Il legame di Renato Salvatori con il modello attoriale incarnato da James Dean (seppur edulcorato e de-tragicizzato) è in qualche modo evidenziato in Poveri ma belli: nella prima parte del film, il metronotte (Memmo Carotenuto) che di giorno affitta il letto del giovane bullo romano commenta l’eccessiva attenzione con cui il ragazzo cura il proprio aspetto, esclamando ‘Guarda che roba oh! Gioventù bruciata!’, in un riferimento palese alla leggendaria pellicola di Nicholas Ray, uscita in Italia nell’aprile 1956, pochi mesi prima di Poveri ma belli. Secondo Enrica Capussotti, inoltre, questo ‘narcisismo declinato al maschile costituisce una novità’ che proprio il film di Dino Risi introduce nel contesto del cinema italiano del dopoguerra: i corpi di Salvatori e Maurizio Arena (suo co-protagonista), continua Capussotti, ‘rimandano ad una virilità tradizionale, ma introducono anche alcune aperture di senso: i fisici sono sottolineati con blue jeans attillati e pantaloncini succinti, mentre la brillantina non può mancare nel ciuffo dei più invidiati seduttori di Piazza Navona’. In tal senso, per la prima volta ‘i corpi maschili conquistano una visibilità di cui erano privati in precedenza e la virilità può ora concedersi la cura di sé e l’uso di alcuni prodotti di bellezza’. Enrica Capussotti, ‘Vitelloni, ribelli, teenagers. Maschilità e culture giovanili negli anni Cinquanta’, Contemporanea, 6.3 (2003), pp. 475–501 (p. 490).

9 Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, (Roma: Carocci, 2011), p. 101.

10 Ivi, p. 102.

11 Lo stesso Francesco Rosi, d’altronde, descrive la scelta di affidare a Salvatori il ruolo di Mario alla stregua di un tentativo di cambiare radicalmente il suo paradigma attoriale. ‘Scelsi Renato’, ricorda il regista, ‘che allora era assieme a Maurizio Arena il divo della commedia all’italiana rosa. […] Devo dire che nella mia decisione contò anche il gusto di far cambiare registro a un giovane attore di successo che, tra l’altro, desiderava molto fare un film con me. La mia decisione ebbe esito felice: Renato fu bravissimo, combinò benissimo con Alberto Sordi e Belinda Lee e, a partire dal mio film, cominciò una nuova carriera che lo portò a fare Rocco e i suoi fratelli con Visconti, oltre a molti altri film di genere drammatico, tra i quali una partecipazione al mio Cadaveri eccellenti’. Umberto Guidi, ‘Trent’anni di cinema’, in Gierut, Guidi, Santucci, pp. 89–200 (pp. 124–25).

12 Jacqueline Reich, Beyond the Latin Lover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema (Bloomington-Indianapolis: Indiana University Press, 2004), pp. 1–2.

13 Sergio Frosali, ‘La faccia scura del miracolo economico’, La Nazione, 28 marzo 1988, p. 3.

14 Reich e O’Rawe, p. 23.

15 Frosali, p. 3.

16 Reich e O’Rawe, p. 42.

17 Frosali, p. 3.

18 Guidi, p. 96.

19 Nel descrivere lo stile recitativo di Renato Salvatori, Giuliano Montaldo evidenzia come qualità decisiva proprio il suo grande istinto: ‘Che metodo seguiva? Nessuno, recitava d’istinto. […] Certo non aveva una grande tecnica, aveva solo l’istinto, non aveva le furbizie del grande attore, aveva la generosità dell’interprete un po’ näif e credo che fosse una delle ragioni per cui lo amava anche Visconti. Non chiedeva le ragioni, il perché dovesse agire sulla scena in un certo modo. Gli dicevo: devi fare quel movimento da lì a là. E lui: va bene così? Sì, sì lo stai facendo bene. Davvero? Era quasi sorpreso’. Guidi, p. 94.

20 Gian Luigi Rondi accomuna il complesso dei personaggi interpretati da Salvatori nella seconda parte della sua carriera in una categoria umana che si muove ‘fra lo spregiudicato e il piccolo borghese, con accenti qualche volta un po’ grevi, ora cinici ora sofferti, sempre con venature di cattiveria e di asprezza’. Figure che ‘non mi somigliano’, diceva Salvatori, ‘ma so dove andarle a pescare’. Rondi.

21 Guidi, p. 182.

22 Oltre a orientare l’attenzione e l’impegno di Salvatori verso un modello di cinema impegnato, al quale il divo toscano si dedicherà in modo praticamente esclusivo fino alla fine della sua carriera, la lavorazione di Rocco e i suoi fratelli segna in modo decisivo la stessa esistenza dell’attore. Sul set del film di Visconti, infatti, Salvatori conosce Alain Delon, con cui stringe una forte amicizia (che, fra le altre cose, li porterà a collaborare in numerose occasioni negli anni settanta, soprattutto nell’ambito dei film francesi di genere polar) e Annie Girardot che diventerà sua moglie appena due anni dopo. L’influenza di Visconti sulla crescita intellettuale e professionale di Salvatori è d’altronde rievocata dall’attore stesso: ‘Io ero molto amico di Luchino. Se ho imparato qualcosa, l’ho imparata da lui. Ero come un cagnone che gli stava appresso, con le orecchie dritte, attente, per cercare di imparare. Dopo tutto era normale, si trattava del mio lavoro, mi interessava solo quello. Luchino è stato anche il mio maestro di vita. […] Quindi per me parlare di Luchino non è solo parlare di un film ma di una vita … Un giorno mi disse che stava preparando un soggetto, lo stava scrivendo e io ne sarei stato il protagonista. Dio che momento fu quello! Indescrivibile, proprio. Poi cominciarono a sorgere delle difficoltà enormi per farlo […] Da principio doveva produrlo Cristaldi, il quale voleva però la Bardot o Pascal Petit. […] Nel frattempo io ebbi a che ridire con Lombardo che mi teneva sotto contratto. Ero stufo di fare dieci film l’anno del genere della Nonna Sabella, mi spremevano come un limone, non ne potevo più. Così gli dissi basta, o smetto o voglio fare un film di qualità come quello che sta pensando Visconti. E Lombardo mi disse: “Va bene, portami la storia, poi vediamo”. Il giorno appresso mi presentai da lui con Luchino. Tra loro si instaurò subito un rapporto di grande comprensione e di simpatia. Mi sembrava un miracolo’. L’avventurosa storia del cinema italiano. Da La dolce vita a C’era una volta il West, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi (Bologna: Edizioni della Cineteca di Bologna, 2021), p. 37.

23 Salvatori ricorda: ‘Lombardo era disposto a fare il film ma non voleva che lo interpretassi io anche se ero a contratto con lui. Credo non fosse troppo entusiasta di me come attore, non so, insomma, si era messo in testa Paul Newman. Luchino andò avanti per un paio di mesi continuando a ripetere che invece dovevo farlo io, finché all’ultima riunione si incazzò, batté i pugni sul tavolo, disse che o lo faceva con Salvatori o niente’. Faldini e Fofi, p. 37.

24 Teresa Biondi, Il cinema antropomorfico di Luchino Visconti: L’affresco umano degli antieroi viscontiani (Torino: Meti, 2016), p. 22.

25 Ivi, p. 66.

26 Rievocando la genesi del personaggio di Simone Parondi, Salvatori ammette: ‘[Visconti] del resto, si era ispirato a me per il personaggio, anche quando avevo fatto quella scazzottata con Umberto Orsini per la Rossella Falk gli avevo dato uno spunto, si era entusiasmato, eravamo stati tutta la notte a vagare nei pressi della casa con lui che ripeteva: “Ma lo potevi ammazzare, bel risvolto, bel risvolto! … ”. Luchino, poi, nelle faccende incasinate ci sguazzava’. Faldini e Fofi, p. 37.

27 Mauro Giori, Rocco e i suoi fratelli: La vita amara di Luchino Visconti (Torino: UTET, 2021), p. 129.

28 Come riporta Brendan Hennessey, per la preparazione del suo personaggio, Salvatori si dedicò a un allenamento intensivo sotto la guida di Enzo Fiermonte, uno dei massimi campioni italiani di pugilato del tempo (che, inoltre, insieme ad altri grandi nomi della boxe degli anni cinquanta e sessanta – Rocco Mazzola, Bruno Fortilli, Choca, fra gli altri – prese parte al film di Visconti). Nell’analizzare la maggiore aderenza fisica di Salvatori al personaggio del boxeur rispetto a quella di Alain Delon, inoltre, Hennessey evidenzia come ‘la mimesi di Salvatori dello stile da slugger [lett. picchiatore], contraddistinto da una potenza bruta in grado di contrastare la mancanza di tecnica, dà un ritratto infinitamente più credibile del pugile. Con il suo fisico imponente, Salvatori incarna tutta la vanagloria e la brutalità che definiscono il modello del pugile dissoluto, le cui scappatelle sessuali e la passione per il lusso determinano inevitabilmente il fallimento sul ring’. Brendan Hennessey, ‘Patterns of Pugilism: Rocco e i suoi fratelli (1960) and the Boxing Film’, The Italianist, 36.2 (2016), pp. 214–42 (pp. 223, 224, 226).

29 Giori, Rocco e i suoi fratelli, p. 174.

30 Bellassai, L’invenzione della virilità, p. 124.

31 Ivi, p. 146.

32 Ivi, p. 146.

33 Particolarmente pregnanti, in questo caso, sono le riflessioni sulla mascolinità mediterranea di David D. Gilmore, secondo il quale, come riassume Federico Zecca, ‘nel corso della sua vita l’uomo mediterraneo deve continuamente dimostrare agli altri (e a se stesso) di essere “uomo”, interpretando in modo corretto un “copione maschile” che ne (pre)stabilisce il ruolo sul “palcoscenico della vita”. […] Al contrario, l’uomo incapace (o non più capace) di incarnare in modo adeguato il copione maschile è sottoposto a una simbolica “emasculazione”: la sua integrità fisica è dissolta ed egli soccombe a costante pericolo dell’inversione sessuale, della femminilizzazione’. Cfr. Zecca, pp. 16–17. Sullo stesso tema, Jacqueline Reich e Catherine O’Rawe ribadiscono significativamente che ‘i culti mediterranei della mascolinità sono “allo stesso tempo potenti e intrinsecamente fragili”, e richiedono “costante vigilanza e difesa” contro le minacce della femminilizzazione, della sessualità femminile e dell’omosessualità’. Cfr. Reich e O’Rawe, p. 7.

34 Cfr. Giori, Rocco e i suoi fratelli, p. 174 e Mauro Giori, Omosessualità e cinema italiano: Dalla caduta del fascismo agli anni di piombo (Torino: UTET Università, 2019), pp. 127–28.

35 Luca Barattoni, Italian Post-Neorealist Cinema (Edimburgo: Edinburgh University Press, 2012), p. 14.

36 Lino Micciché, Patrie visioni: Saggi sul cinema italiano 1930–1980 (Venezia: Marsilio, 2010), pp. 161–62.

37 Luchino Visconti, Oltre il fato dei Malavoglia, in Rocco e i suoi fratelli: storia di un capolavoro, a cura di Goffredo Fofi (Roma: Minimum Fax, 2010), pp. 127–32 (p. 130).

38 Agnese Bertolotti, Bisogni e desideri: Società, consumi e cinema in Italia dalla Ricostruzione al Boom (Milano & Udine: Mimesis, 2021), p. 36.

39 Ivi, pp. 36–37.

40 Anche da questo punto di vista, il personaggio incarnato da Salvatori sembra essere costruito secondo un principio di diametrale opposizione rispetto a quello di Delon, caratterizzato da un’attitudine al consumo non ‘contaminata’ dalle malizie del boom, fondata sull’obbligo etico di priorizzare la soddisfazione dei bisogni primari rispetto a quella dei desideri accessori. Questo aspetto del carattere di Rocco emerge chiaramente durante il casuale incontro con Nadia, nel periodo di licenza militare, quando il protagonista le rivela: ‘A me mi piacerebbe desirare un’automobile per esempio ma solo dopo aver desiderato e ottenuto tutto quello che viene prima. Voglio dire un lavoro sicuro, fisso, una casa e la sicurezza d’ave’ da mangiare tutti i giorni’.

41 Giori, Omosessualità e cinema italiano, p. 127.

42 Nel commentare la performance del divo toscano nel suo Omicron, Gregoretti ammette che ‘Salvatori nel film fu bravo come non era mai stato prima né fu più dopo, non era né il povero ma bello né il fratello di Rocco, come prima, né il becero di sinistra come dopo’. Guidi, p. 160.

43 Eliot Chayt, ‘Revisiting Italian Post-Neorealist Science-Fiction Cinema (1963–74)’, Science Fiction Studies, 42.2 (2015), 332–38 (p. 327).

44 Simone Brioni e Daniele Comberiati, Italian Science Fiction: The Other in Literature and Film (Cham: Palgrave MacMillan, 2019), p. 88.

45 Brioni e Comberiati, p. 86.

46 Chayt, p. 327.

47 Brioni e Comberiati, p. 87.

48 Bellassai, L’invenzione della virilità, p. 51.

49 Ivi, pp. 51–52.

50 Ivi, p. 52.

51 ‘Punto primo: abolizione delle feste e del riposo notturno! […] Punto secondo: proibizione di amare, proibizione di parlare, proibizione di pensare. Chi si ostini a pensare verrà punito mediante amputazione della testa! […] Punto terzo: abolizione dei sentimenti, della volontà, della pietà, della dignità e di altre malattie infettive ereditarie di origine preistorica’.

52 Alberto Crespi, Giuliano Montaldo: Dal polo all’equatore (Venezia: Marsilio, 2005), p. 9.

53 Micciché, p. 192.

54 Crespi, p. 152.

55 Ilaria Feole, ‘Una bella grinta (1965)’, in Giuliano Montaldo. Una storia italiana, a cura di Pedro Armocida, Caterina Taricano (Venezia: Marsilio, 2020), pp. 179–84 (pp. 180–81).

56 Feole, p. 181.

57 Giulia Muggeo, ‘“Invece di fare la vita faticosa del regista avrei fatto quella noiosissima dell’attore”: Presenze attoriali nel cinema di Montaldo’, in Armocida e Taricano, pp. 138–50 (p. 141).

58 Feole, p. 181.

59 Barattoni, p. 14.

60 Faccio qui riferimento al concetto di ‘mascolinità egemonica’, coniato da Raewyn W. Connell e inteso come il paradigma di ‘mascolinità che occupa la posizione egemone all’interno di un certo sistema di relazioni di genere’, una posizione – precisa Connell – mai fissa ma perennemente in evoluzione, sempre soggetta a trasformazioni e spodestamenti da parte di concezioni alternative del maschile, spesso precedentemente considerate subordinate o marginali. Raewyn W. Connell, Masculinities (Cambridge: Polity Press, 1995), pp. 77–78.

61 Bellassai, L’invenzione della virilità, p. 116.

62 Sandro Bellassai, La mascolinità contemporanea (Roma: Carocci, 2004), p. 121.

63 Bellassai, L’invenzione della virilità, p. 118.

64 Ibid.

65 ‘Un anno dopo [recita la voice over] la nuova fabbrica di Ettore Zambrini era pronta. Negli stessi giorni una draga, lavorando sul Po, aveva ripescato dalla melma il cadavere di un uomo ma fu impossibile identificarlo. I giornali se ne occuparono appena’.

66 Feole, p. 180.

67 Ibid.

68 Zecca, p. 14.

69 Bellassai, L’invenzione della virilità, p. 116.

70 Federico Vitella, ‘Domanda divistica e vedettizzazione dell’attore: L’entrata della star nel cinema italiano del secondo dopoguerra’, L’avventura, 2 (2021), pp. 159–80 (p. 161).

71 Micciché, p. 134.

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